Dazi di Trump necessari: non puoi prosperare senza produrre tecnologia
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Per anni, i media di proprietà di chi si arricchiva con la globalizzazione hanno detto che dovevamo delegare la produzione industriale alla Cina. Ma un paese che vuole essere ricco e moderno non può vivere solo producendo vino e affittando B&B.
I dazi di Trump: una barriera per salvare l’Occidente dalla caduta, riportando la produzione tecnologica in patria
I dazi su larga scala annunciati da Donald Trump il 2 aprile 2025 – 20% sull’Unione Europea, 34% sulla Cina, fino al 49% per Paesi come la Cambogia – non sono solo una mossa economica, ma una strategia per invertire un processo che rischia di segnare la fine della primazia occidentale. Per decenni, la produzione tecnologica è migrata in Cina, attirata da costi irrisori e normative permissive, arricchendo pochi speculatori e multinazionali a scapito dell’economia reale. Questa delocalizzazione non ha solo impoverito l’Occidente, ma ha trasferito conoscenza e innovazione a un rivale strategico, mettendo a rischio la leadership americana e, a lungo termine, l’intero mondo occidentale. I dazi di Trump sono un tentativo di riportare la produzione in patria, perché una lezione della storia è chiara: non si può prosperare senza produrre, e un impero che smette di farlo è destinato a cadere, come accadde a Roma.
La migrazione della produzione tecnologica verso la Cina è iniziata negli anni ’90, quando colossi come Apple, Intel e Dell hanno spostato le loro catene di montaggio in Asia per massimizzare i profitti. La Cina, con il suo esercito di manodopera a basso costo e un governo che offriva incentivi fiscali, è diventata la “fabbrica del mondo”. Secondo un rapporto del 2023 della US-China Economic and Security Review Commission, oltre l’80% della produzione globale di semiconduttori – il cuore di ogni dispositivo tecnologico – avviene in Asia, con la Cina che controlla una fetta sempre più grande grazie a aziende come SMIC. Ma non si tratta solo di produzione: trasferendo le fabbriche, l’Occidente ha ceduto anche know-how. Ingegneri cinesi hanno imparato a progettare chip, software e hardware, mentre aziende come Huawei hanno iniziato a competere con i giganti americani, spesso con il supporto statale.
Questo processo ha arricchito pochi: gli azionisti delle multinazionali, i fondi speculativi di Wall Street, e una ristretta élite finanziaria che ha visto i propri profitti esplodere. Ma il prezzo è stato alto. Negli Usa, intere città industriali come Detroit sono diventate gusci vuoti, con tassi di disoccupazione alle stelle. In Italia, il settore tecnologico – un tempo fiorente con aziende come Olivetti – è stato soffocato dalla concorrenza sleale. E, soprattutto, la dipendenza dalla Cina per componenti cruciali ha messo a rischio la sicurezza nazionale occidentale. La crisi dei chip del 2020-2022, che ha fermato le linee di produzione di auto e dispositivi elettronici, è stata un campanello d’allarme: l’Occidente non può più permettersi di essere ostaggio di Pechino.
Trump lo ha capito. I dazi del 34% sulla Cina non sono una punizione casuale, ma un’arma per costringere le aziende a riportare la produzione in patria. Esentando temporaneamente settori come i semiconduttori – come riportato da Reuters – Trump sta mandando un messaggio chiaro: tornate a produrre negli Usa, e sarete protetti. Aziende come TSMC, che produce chip a Taiwan (colpita da dazi al 32%), hanno già iniziato a costruire impianti in Arizona, mentre Intel ha annunciato investimenti per 20 miliardi di dollari in Ohio. Questo non è solo un guadagno economico, ma una questione di sopravvivenza strategica: chi controlla la tecnologia controlla il futuro.
La storia insegna che gli imperi cadono quando smettono di produrre. L’Impero Romano, al suo apice, era un centro di manifattura e innovazione; ma quando iniziò a dipendere dalle importazioni e a delegare la produzione alle province periferiche, perse la sua forza economica e militare, aprendo la strada al declino. L’America rischia lo stesso destino: senza una base produttiva solida, la sua primazia tecnologica – e con essa quella dell’Occidente – è destinata a svanire. La Cina, con il suo piano “Made in China 2025”, punta a dominare settori come l’intelligenza artificiale e i semiconduttori entro il 2030. Se ci riesce, l’equilibrio globale cambierà per sempre.
Per l’Italia, i dazi di Trump sono un’opportunità. Anche noi abbiamo subito la delocalizzazione tecnologica: le nostre startup tech spesso finiscono per produrre in Asia, e il nostro tessuto industriale è stato eroso dalla globalizzazione. Adottare dazi mirati, come sta facendo Trump, potrebbe incentivare le aziende a tornare a produrre qui, creando lavoro e innovazione. La premier Giorgia Meloni, che incontrerà Trump a Washington il 16 aprile, dovrebbe cogliere l’occasione per negoziare un accordo bilaterale, scavalcando un’UE che tutela gli interessi tedeschi a scapito dei nostri.
I dazi di Trump non sono una minaccia, ma una sveglia. Riportare la produzione tecnologica in Occidente non è solo una questione economica, ma di sopravvivenza. Non si può prosperare senza produrre: Roma lo ha imparato a sue spese, e l’America non può permettersi di ripetere lo stesso errore. Per l’Italia, è il momento di agire e costruire un futuro in cui torniamo a essere protagonisti, non spettatori, dell’innovazione globale.
Se Trump fosse arrivato vent’anni fa, questo processo sarebbe stato meno traumatico. Ma più tempo passa, più lo sarebbe. Fino al punto in cui sarebbe impossibile.
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