Senza immigrati le carceri sarebbero vuote
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**Immigrazione e criminalità: i numeri che svelano il peso sulle carceri e sulla società italiana**
In un’Italia sempre più alle prese con il sovraffollamento carcerario, la gestione dei flussi migratori e l’integrazione degli stranieri, un dato emerge con chiarezza: il tasso di criminalità tra la popolazione straniera ha un impatto diretto e devastante sul sistema penitenziario e sulla qualità della vita dei cittadini. Secondo un’analisi recente, se il tasso di criminalità degli stranieri scendesse al livello di quello degli italiani, si libererebbero circa 16 mila posti nelle carceri italiane. Anche se questo tasso rimanesse due o tre volte superiore a quello degli italiani – invece delle attuali sei o sette volte – si potrebbero comunque liberare tra gli 8 e i 10 mila posti. Una cifra, quest’ultima, che basterebbe a neutralizzare il sovraffollamento delle nostre strutture detentive, un problema cronico che costa allo Stato milioni di euro e compromette la sicurezza e la rieducazione dei detenuti.
Ma i numeri non si fermano qui. Se si adottasse una politica di rimpatrio sistematico per gli stranieri che commettono reati, il beneficio sarebbe ancora più impressionante: si libererebbero circa 22 mila posti nelle carceri, pari a oltre un terzo della popolazione carceraria totale. E gli effetti positivi non si limiterebbero al sistema penitenziario. L’impatto si estenderebbe a molte altre aree della vita sociale, oggi sotto pressione a causa di un’immigrazione non adeguatamente gestita. Parliamo di 200 mila posti nei centri di accoglienza, che potrebbero essere chiusi o riconvertiti per altri scopi; di 1 milione di posti in asili, scuole e classi, che diventerebbero più vivibili per studenti e insegnanti; di 200 mila case popolari, che potrebbero essere assegnate agli italiani in lista d’attesa; e di migliaia di posti letto negli ospedali, oggi spesso occupati da stranieri che accedono ai servizi sanitari senza contribuire al sistema.
Questi numeri non sono mere speculazioni, ma il riflesso di una realtà che i dati descrivono con chiarezza. Gli stranieri rappresentano circa il 8,5% della popolazione residente in Italia, ma costituiscono oltre il 30% della popolazione carceraria. Reati come furti, spaccio, rapine e violenze vedono una sovrarappresentazione di stranieri, con tassi di incidenza che, per alcune categorie di crimini, superano di sei o sette volte quelli degli italiani. Questo non significa criminalizzare un’intera categoria, ma ignorare queste statistiche sarebbe altrettanto irresponsabile. La domanda sorge spontanea: perché non affrontare il problema alla radice?
Una politica di rimpatrio per i delinquenti stranieri non solo alleggerirebbe il carico sul sistema carcerario, ma restituirebbe risorse preziose alla collettività. Pensiamo agli asili, dove l’alta presenza di bambini stranieri, spesso con difficoltà linguistiche, rallenta i programmi educativi e richiede risorse aggiuntive per l’integrazione. O alle case popolari, dove le liste d’attesa si allungano mentre famiglie italiane in difficoltà vedono assegnazioni prioritarie a stranieri. Per non parlare degli ospedali, dove l’accesso gratuito al sistema sanitario per chi non contribuisce fiscalmente grava sui bilanci pubblici e allunga i tempi d’attesa per tutti.
Il sovraffollamento delle carceri, la pressione sui servizi pubblici e la percezione di insicurezza nelle città non sono problemi isolati, ma facce della stessa medaglia. Ridurre il tasso di criminalità degli stranieri, attraverso politiche di prevenzione, integrazione efficace e, quando necessario, rimpatrio, non è una proposta xenofoba, ma una questione di buonsenso. Liberare 22 mila posti nelle carceri significherebbe risparmiare centinaia di milioni di euro all’anno, che potrebbero essere investiti in scuole, ospedali, forze dell’ordine o infrastrutture. Significherebbe, in una parola, restituire all’Italia un po’ di quel respiro che oggi manca.
I numeri parlano chiaro: continuare a ignorare l’impatto dell’immigrazione incontrollata sulla criminalità e sui servizi pubblici non è più sostenibile. È tempo di affrontare la realtà con pragmatismo, senza ideologie né buonismi. Perché, come dimostrano i dati, una gestione più rigorosa non solo è possibile, ma necessaria per il bene di tutti.
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