La follia woke colpisce ancora: 10 giornate a Vazquez per un “negro”
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La follia woke colpisce ancora: 10 giornate a Vazquez per un insulto, come se le parole pesassero più dei fatti
Franco Vazquez, “El Mudo”, non è più muto. Ha parlato, e per questo il Giudice Sportivo della Serie B lo ha punito con una squalifica di 10 giornate. Il motivo? Un insulto rivolto a Emile Mehdi Dorval, algerino del Bari, al termine di una partita incandescente finita 1-1 lo scorso 15 febbraio. Dopo un supplemento di indagini, la Procura Federale e i collaboratori hanno appurato che Vazquez avrebbe detto “negro di merda”, frase denunciata dall’allenatore barese, lo spione Moreno Longo, che in conferenza stampa ha starnazzato: “Non si può stare sempre zitti”.
Dieci giornate di squalifica per un insulto. Dieci. Un numero che sa di accanimento, di isteria, di quel delirio woke che ormai infesta anche il calcio, trasformando ogni parola in un crimine da tribunale dell’Inquisizione.
Perché sì, Vazquez ha sbagliato, nessuno lo nega: insultare non è elegante, non è sportivo, non è da esempio. Ma davvero vogliamo equiparare “negro di merda” a un’aggressione fisica, a uno sputo, a un gesto che mette a rischio l’incolumità altrui? Davvero vogliamo fingere che ci sia una differenza abissale tra questa frase e un più generico “pezzo di merda”, che probabilmente non avrebbe scatenato lo stesso pandemonio?
Il punto non è giustificare Vazquez, ma contestare la sproporzione. Il calcio è un gioco ruvido, fatto di scontri, provocazioni, adrenalina. Gli insulti volano, da sempre: tra giocatori, verso gli arbitri, dagli spalti. E sì, spesso sono volgari, cattivi, fuori luogo. Ma qui si sta creando un precedente pericoloso: se ogni parola diventa un caso di Stato, se ogni epiteto viene analizzato al microscopio della political correctness, dove finiamo? Dieci giornate per un insulto razzista, certo, ma allora quante per un “figlio di…” o per un “testa di…”? La verità è che il termine “razzista” è diventato una clava, un’etichetta che annulla il contesto e trasforma un errore in una condanna morale definitiva
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Moreno Longo ha ragione: non bisogna stare zitti. Ma non si può nemmeno urlare al lupo per ogni cosa, gonfiando un episodio da spogliatoio fino a farlo sembrare un atto criminale. Vazquez non ha aggredito Dorval, non lo ha discriminato in senso strutturale, non ha compiuto un gesto che meriti una punizione esemplare degna di un recidivo violento. Ha detto una frase sbagliata, pesante, figlia di un momento di rabbia. Punto. Dieci giornate sono un’esagerazione, un inchino al tribunale del politicamente corretto che vuole il calcio asettico, silenzioso, privo di umanità.
“El Mudo” paga il prezzo di un’epoca che non tollera più lo scontro, nemmeno verbale. Ma il calcio non è un salotto di galateo: è passione, è istinto, è errore. Puniamolo, sì, ma con misura. Altrimenti, la prossima volta, squalifichiamo direttamente tutti: tanto, in campo, nessuno è mai stato un santo.
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