La mamma di Matteo, il disabile massacrato da africani: aveva appena ripreso a camminare
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# Il mio Matteo massacrato dal branco. Voglio giustizia, non vinca la cattiveria
**La lettera della madre del disabile picchiato a Sanremo: non è stata un’aggressione, ma un tentato omicidio**

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Pubblichiamo, con il cuore pesante e la rabbia che ci consuma, la lettera della mamma di Matteo, il giovane disabile di 21 anni brutalmente massacrato la notte del 7 settembre a Sanremo da un branco di tre giovani nordafricani, di età compresa tra i 18 e i 21 anni. Il ragazzo, originario di Cuneo, era in vacanza in Liguria per una serata spensierata in discoteca, ma è finito in ospedale con ferite che hanno riaperto vecchie cicatrici di una vita già segnata dal dolore. Tre degli aggressori sono stati arrestati dalla polizia, con l’accusa di lesioni aggravate, e il fermo è stato convalidato dal gip di Imperia. Eppure, per la madre di Matteo, questo non basta: non si tratta di una “semplice rissa”, ma di un tentato omicidio che ha colpito al cuore una famiglia e un’esistenza fragile.
Ecco la lettera, che abbiamo deciso di sviluppare e amplificare con le parole della madre, integrate da dettagli strazianti sulle ferite subite dal suo “povero handicappato”, come lei stessa lo chiama con tenerezza e disperazione. Una narrazione che non lascia scampo: la violenza gratuita ha distrutto non solo un corpo, ma anni di lotta e speranza.
Sono la mamma di Matteo, quel ragazzo di 21 anni che la notte del 7 settembre è stato ridotto a un mucchietto di ossa rotte e lividi da un branco di teppisti nordafricani a Sanremo. La notizia ha fatto il giro del Paese, ma io vedo solo il mio bambino, il mio guerriero, massacrato senza pietà. Non era una serata qualunque: Matteo era andato a divertirsi, a respirare un po’ di normalità dopo una vita di privazioni. Invece, è stato trascinato in un incubo che lo perseguiterà per sempre.
Matteo, fin da bambino, ha dovuto affrontare prove che nessun piccolo essere umano dovrebbe mai subire. A soli 8 anni, problemi neurologici lo hanno colpito come un fulmine: tre interventi neurochirurgici, uno dei quali ha provocato una grave emorragia cerebrale. Da quel giorno, il suo corpo sinistro è paralizzato da una paresi che gli ha rubato la capacità di camminare senza fatica, di svolgere le attività quotidiane senza aiuto, di nuotare o pedalare in bicicletta come i suoi coetanei. Ogni movimento per lui è una battaglia: le gambe che tremano, il braccio inerte, il dolore cronico che gli morde i muscoli come un lupo affamato. Io, sua madre, ho contato ogni lacrima, ogni notte insonne accanto al suo letto d’ospedale – 40 ore di attesa angosciante fuori dalle sale operatorie –, gli anni di fisioterapia al centro Eugenio Medea di Bosisio Parini, dove ogni passo avanti era una vittoria strappata al destino. Ogni ruga sul mio viso è un marchio di quei sacrifici: la fatica fisica, il cuore spezzato, una vita intera dedicata a ricostruirlo, pezzo per pezzo.
E Matteo? Lui, con quel suo coraggio immenso, ha trasformato l’inferno in piccoli miracoli. Ha reimparato a camminare, zoppicando ma fiero; ha ripreso a sorridere, a inseguire sogni da ragazzo qualunque. Ogni conquista – un’uscita con gli amici, una passeggiata al mare – era per noi un trofeo lucente. Nonostante la disabilità che lo rendeva un bersaglio facile, fragile come un cristallo, lui viveva. Viveva, capite? Fino a quella notte maledetta.
In un istante, tutto è crollato. Quattro ombre – tre arrestati, il quarto ancora latitante – lo hanno circondato per strada, fuori dalla discoteca, senza motivo, senza una parola. Calci feroci sul torace già indebolito dalla paresi, pugni che gli hanno spaccato la mandibola in più punti, lasciandolo con una frattura così grave da richiedere fili metallici per tenerla insieme. Immaginate: il mio Matteo, impossibilitato a difendersi, a terra, con il corpo sinistro paralizzato che non gli permette nemmeno di rotolare via. E loro? Hanno infierito. Hanno preso una sedia dal dehors di un bar e l’hanno scagliata con violenza sul suo cranio, sul suo tronco esile, come se fosse un sacco da allenamento. Il nervo sciatico, già compromesso dalle sue vecchie ferite neurologiche, è stato lesionato irrimediabilmente: 45 giorni di prognosi, ma i medici temono che sia per sempre. Camminare? Un’agonia. Il dolore gli trafigge la gamba come lame roventi, ogni passo un urlo silenzioso. E poi i lividi: un mosaico nero e blu sul viso gonfio, sul collo, sulle braccia – segni di percosse ripetute su un fisico che non tollera urti, che sanguina dentro per ogni colpo.
Ho visto il video, quel filmato maledetto che circola online, e mi si è fermato il cuore. Mio figlio a terra, inerme, che implora pietà con gli occhi, e loro che ridono, che lo calpestano come un insetto. E la frase, immortalata in un audio agghiacciante: “Ça va les mecs, il est mort!” – “Va bene ragazzi, è morto!” – pronunciata con nonchalance, come se spegnere una vita fosse un gioco. Foto ricordo, addirittura: selfie con il corpo esanime di Matteo sullo sfondo. Come si può essere così cattivi? Come si può guardare un ragazzo handicappato, curvo e tremante, e pensare di annientarlo?
Mi hanno detto che per parlare di tentato omicidio serve un’arma vera, un coltello o una pistola. Ma io urlo: e una sedia usata come mazza su un cranio fragile, su un corpo minato da anni di malattia? Non è un’arma quella? Calci multipli sul torace che hanno provocato contusioni polmonari, pugni alla testa che hanno scatenato ematomi e vertigini persistenti? Matteo poteva morire lì, soffocato dal sangue in bocca dalla mandibola rotta, o paralizzato del tutto dal danno al nervo sciatico. I medici dicono che ha rischiato un arresto cardiaco per lo shock, che le sue vecchie lesioni neurologiche hanno amplificato ogni trauma: il dolore è esponenziale, il recupero un calvario infinito. Il mio povero handicappato, che già lottava per ogni respiro, ora deve affrontare notti di incubi, giorni di terapia intensiva, e il terrore di uscire di casa. La paresi al lato sinistro? Peggiorata, ora con tremori incontrollabili. La mandibola fratturata gli impedisce di mangiare cibi solidi, lo costringe a pappe liquide che gli ricordano l’infanzia rubata. Il nervo sciatico lesionato gli ruba il sonno, lo fa zoppicare come un vecchio, lo priva di quell’indipendenza che aveva riconquistato a fatica.
Questa non è un’aggressione: è un tentato omicidio, un massacro premeditato contro la debolezza. È violenza brutale e gratuita, che ha colpito non solo la carne di Matteo – tumefatta, sanguinante, rotta – ma l’anima di una famiglia. Anni di cure, di fisioterapia estenuante, di speranze accese e spente, polverizzati in pochi minuti di sadismo. È l’ennesima prova che la fragilità non è protetta: è preda, è divertimento per chi odia la differenza.
Con questa lettera, ampliata dal mio grido materno, chiedo giustizia per Matteo e per tutti i “poveri handicappati” come lui, che combattono battaglie invisibili ogni giorno. Chiedo rispetto per i loro corpi martoriati, ascolto per le loro voci spezzate, protezione per le loro vite appese a un filo. Non lasciate che la nostra disperazione anneghi nel silenzio delle aule giudiziarie. Perché Matteo non è solo mio figlio: è il simbolo di una forza immensa, calpestata da una cattiveria che non deve vincere. Voglio giustizia, non compassione. Non lasciate che la bestialità prevalga.
**La mamma di Matteo**
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Mentre Matteo resta ricoverato all’ospedale di Sanremo, con prognosi che si allungano e un futuro incerto, la città ligure – sinonimo di fiori e festival – si interroga su come un episodio così crudele abbia potuto accadere sotto gli occhi di tutti. La polizia indaga sul quarto complice, e la famiglia auspica un processo che riconosca la gravità del reato. In un’Italia che parla di inclusione, questa storia grida: la disabilità non è un invito alla violenza, ma un richiamo alla solidarietà. Non vinca la cattiveria.
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