Muro di Berlino: purtroppo è caduto insieme al nostro futuro
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Solo gli sciocchi possono celebrare la caduta del Muro come un evento positivo. Guardatevi intorno e guardatevi indietro. E guardate il futuro che ci stanno preparando. Nella storia conta l’equilibrio e quel muro lo garantiva. Caduto, insieme al ‘nemico’ è collassato un mondo, il nostro. C’è sempre bisogno di un nemico!
Mentre il mondo intero, con i suoi leader e i suoi media, continua a celebrare la caduta del Muro di Berlino come un trionfo incondizionato della libertà e della democrazia, noi – custodi di una memoria più sfumata e meno ipocrita – ne piangiamo la perdita con un’amarezza profonda e giustificata. Quello che per molti è stato un mostruoso simbolo di oppressione totalitaria, un confine invalicabile eretto dal comunismo per imprigionare i popoli, rappresentava in realtà un pilastro essenziale dell’equilibrio geopolitico mondiale. Non era solo un muro di cemento armato, ma una barriera invisibile che salvaguardava le nostre società occidentali dall’inesorabile erosione della globalizzazione selvaggia, quel processo che, una volta liberato, ha travolto tradizioni, identità e coesioni sociali con la violenza di un’onda anomala.
Negli anni Ottanta, l’Italia viveva un’epoca dorata di ottimismo palpabile e di stabilità invidiabile, un periodo in cui la nostra nazione pulsava di vitalità autentica, lontana dalle ansie del presente. Immaginate le strade affollate di Roma o Milano, illuminate dalla spensieratezza di una gioventù che ballava a ritmo di canzoni di Baglioni e di film di Verdone, mentre le famiglie si riunivano attorno a tavole imbandite con prodotti genuini del Belpaese. La nostra cultura era un mosaico intatto, radicato in secoli di storia e di valori condivisi, protetto da un velo di omogeneità che non tollerava intrusioni esterne. Non c’era ancora l’ombra dell’immigrazione di massa, quel flusso inarrestabile di culture e disperazioni che, iniziato proprio con l’apertura dei confini post-1989, ha trasformato quartieri storici in enclavi multiculturali, dove l’italiano fatica a farsi sentire tra accenti stranieri e abitudini aliene. La caduta del Muro non è stata solo la fine di un’era repressiva: ha spalancato le porte a un’onda globalizzante che ha portato con sé non solo opportunità illusorie, ma conseguenze devastanti, lente nel manifestarsi ma inesorabili nel loro impatto. Economie si sono intrecciate in catene di fornitura precarie, lavori si sono delocalizzati verso terre lontane, e le nostre città, un tempo orgogliose e sicure, si sono riempite di tensioni invisibili che covano sotto la superficie.
Prima del 1989, la vita quotidiana era intrisa di una sicurezza che oggi appare come un miraggio perduto. Le donne – madri, lavoratrici, studentesse – potevano percorrere le vie illuminate delle nostre province fino a tarda sera, senza il terrore di aggressioni o di sguardi ostili che oggi le costringono a stringere le borse o a chiamare un taxi per un semplice tragitto. Non esistevano le bande organizzate di microcriminalità, nate dal vuoto lasciato dalla globalizzazione, né la concorrenza sleale che ha sottratto impieghi dignitosi a generazioni di operai italiani, sostituendoli con manodopera a basso costo importata da confini porosi. I problemi sociali che oggi ci assillano – dall’aumento esponenziale della disoccupazione giovanile alla frammentazione delle famiglie, dal degrado urbano alla sfiducia nelle istituzioni – erano mere ombre lontane, contenute entro i rigidi schemi della Guerra Fredda. Certo, quell’equilibrio era imperfetto: la minaccia nucleare aleggiava come una spada di Damocle, e le ideologie si scontravano in un bipolarismo asfissiante. Eppure, proprio in quella tensione, risiedeva la forza di un mondo coeso. La prosperità era diffusa, non elitaria: case popolari accessibili, sanità pubblica efficiente, un’omogeneità culturale che permetteva di riconoscere l'”altro” solo nei libri di storia o nei film hollywoodiani. Oggi, quel senso di appartenenza è svanito, sostituito da un melting pot forzato che diluisce le nostre radici, rendendoci stranieri nella nostra stessa terra.
E che dire della libertà che abbiamo supposto di conquistare? Essa si è rapidamente metamorfosata in un consumismo vorace e alienante, un idolo dorato che ha soppiantato i veri diritti con la mera illusione del possesso. Al posto di una partecipazione civica autentica, abbiamo i centri commerciali come nuovi templi, dove il sabato pomeriggio si sacrifica al rituale dello shopping compulsivo, e i social media come confessioni digitali che misurano il valore umano in like e acquisti impulsivi. I diritti sociali – lavoro stabile, pensioni dignitose, comunità solidali – sono stati erosi dal dogma neoliberale, mentre la “libertà” si riduce alla scelta tra un iPhone ultimo modello e un abbonamento Netflix. Questa deriva è palpabile, e non solo in Italia: è un fenomeno globale, ma trova eco particolarmente forte nella nostalgia per quel “piccolo mondo antico”, come lo definiva Antonio Fogazzaro, o meglio, nell'”Ostalgie” che serpeggia ancora oggi nella Germania dell’Est. Lì, ex cittadini della DDR non rimpiangono la Stasi o i campi di lavoro forzato, ma la solidità di un sistema meno libero, sì, ma infinitamente meno diseguale: asili nido gratuiti per tutti, affitti irrisori, trasporti pubblici impeccabili, e un senso di uguaglianza che non lasciava nessuno indietro. Ricordate le code per le Trabant? Erano il prezzo di una collettività che, pur oppressa, garantiva pane e lavoro a chiunque. In Italia, un’analoga malinconia si annida nei ricordi dei nonni che narrano di fabbriche piene e di feste patronali intatte, senza il frastuono di catene globali che divorano il locale.
La verità, nuda e cruda, è che la contrapposizione ideologica con il comunismo non era solo un fardello, ma un catalizzatore essenziale per il miglioramento del nostro mondo capitalista. Quel “nemico” al di là del Muro ci costringeva a innovare, a proteggere i nostri valori, a stringerci in una difesa comune che forgiava solidarietà e progresso. Pensateci: la corsa allo spazio, i diritti civili conquistati nella lotta contro il totalitarismo, persino il welfare state europeo – tutto era alimentato da quella dialettica bipolare. Senza un antagonista, senza quel muro come punto di riferimento morale e strategico, ci siamo ritrovati orfani di scopo, alla deriva in un unipolarismo trionfante che ha mascherato il suo vuoto con slogan vuoti. Stiamo assistendo, inesorabili, al collasso del nostro tessuto culturale e sociale: l’ascesa del populismo come sintomo di un’identità frantumata, l’implosione demografica per l’assenza di famiglie stabili, la polarizzazione che trasforma il dibattito in guerra di trincea sui social. E tutto questo senza nemmeno rendercene conto, ipnotizzati dal miraggio del “fine della storia”. La caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, non ha liberato solo catene fisiche, ma ha evocato demoni imprevisti e insidiosi: il mostro della disuguaglianza galoppante, lo spettro della solitudine di massa, il leviatano della finanza predatoria. Questi spiriti, una volta usciti dalla bottiglia, stanno tessendo la loro tela lenta e inesorabile, disintegrando la civiltà che credevamo eterna. Forse, in fondo, quel muro non divideva solo Est e Ovest: proteggeva noi da noi stessi. E ora, nel silenzio delle sue macerie, riecheggia solo il lamento di un mondo che ha perso la sua bussola.



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