Due donne uccise in 24 ore da immigrati: il silenzio delle femministe
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Silenzio colpevole delle cosiddette femministe.
**Due Donne Uccise in 24 Ore: La Serie Nera del 2024 in Italia Continua**
In un arco di appena 24 ore, l’Italia è stata scossa da due episodi di violenza inaudita contro le donne, contribuendo a un bilancio tragico che conta ormai venti vittime di omicidi da parte di immigrati nel corso del 2024.
**Sara Centelleghe: La Diciannovesima Vittima**
La prima delle due tragedie ha visto come protagonista Sara Centelleghe, la diciannovesima donna a perdere la vita in queste circostanze. La comunità si è trovata a dover affrontare il dolore e la rabbia per una vita spezzata in modo così brutale. Sara, conosciuta per la sua passione per la natura e lo sport, lascia un vuoto immenso nella sua famiglia e tra i suoi amici, con la sua morte che ha sollevato questioni sulla sicurezza delle donne e sull’integrazione.
**La Ventesima Vittima: Una Nuova Tragedia**
Solo poche ore dopo, un’altra giovane donna, una ragazzina di 13 anni, è diventata la ventesima vittima di questo fenomeno. Questo secondo episodio ha consolidato una tendenza preoccupante, ponendo l’Italia di fronte a un’emergenza di sicurezza che non può essere ignorata.
La vittima avrebbe compiuto i 14 anni tra appena due settimane, ha perso la vita dopo essere precipitata dal tetto di un edificio. La ragazzina è caduta per sette piani, trovata poi senza vita sul luogo dell’impatto.
Il fidanzato della vittima, un ragazzo di 15 anni di origine albanese, è ora sotto indagine per omicidio volontario. Secondo quanto reso noto, il giovane era presente sul tetto con lei al momento della caduta.
La sorella maggiore della vittima ha espresso il suo dolore e la sua rabbia attraverso i social media, accusando direttamente il fidanzato di essere responsabile della morte della sorella. In uno sfogo online ha affermato: “L’ha buttata giù lui, non era pazza, né depressa, è stata l’ennesima vittima di violenza.”
La doppia narrazione dell’omicidio in Italia: “femminicidio” per gli italiani, generico “omicidio” per gli stranieri?
Un recente articolo ha sollevato un dibattito sulla doppia narrazione dell’omicidio in Italia, evidenziando come il termine “femminicidio” venga utilizzato quasi esclusivamente quando l’aggressore è italiano, mentre quando l’assassino è straniero, si parla genericamente di “omicidio”.
Secondo l’articolo, questa distinzione linguistica non è solo ingiusta, ma anche ipocrita. Quando l’aggressore è italiano, soprattutto se si tratta di partner o ex partner, il reato viene giustamente etichettato come femminicidio, un atto di violenza di genere che mette in luce la dinamica sistematica e allarmante degli omicidi contro le donne, perpetrati per il solo fatto di essere donne. Tuttavia, quando l’assassino è straniero, la specificità della violenza di genere sembra evaporare, sostituita da una generica e impersonale etichetta di “omicidio”.
Questa distinzione non solo depotenzia l’universalità della lotta alla violenza di genere, ma invia anche un messaggio ambiguo: la vita delle donne e la loro protezione sembrano improvvisamente meno rilevanti quando la violenza viene da “altrove”. Continuare a distinguere gli omicidi di donne in base alla nazionalità dell’assassino contribuisce solo a mantenere un’ipocrisia pericolosa, dove le vite delle vittime sembrano valere di più o di meno a seconda di chi le ha spente.
Se davvero ci impegniamo nella lotta contro la violenza di genere, dobbiamo smettere di nasconderci dietro le parole: femminicidio è femminicidio, a prescindere da chi lo compie.
**Il silenzio delle femministe per questi due femminicidi**
In un mondo che dovrebbe lottare per la parità e la giustizia, assistiamo invece a uno spettacolo che lascia sconcertati: la vittimizzazione del carnefice. Il legale di Jashan Deep Badhan, il 19enne indiano che ha tolto la vita a Sara Centelleghe, ha dichiarato che il suo cliente è “provato” e ha richiesto supporto morale e psicologico per lui.
Dove sono le voci delle femministe che avrebbero dovuto alzarsi per Sara? Dove è il coro di protesta per una giovane vita spezzata? Invece di un grido d’indignazione, sentiamo un silenzio assordante, rotto solo da parole di sostegno al suo assassino.
Questo non è solo un caso di tragedia personale ma un sintomo di una società che sembra aver perso la bussola morale. È incredibile che mentre una famiglia piange una figlia, un’assassina, l’attenzione si sposti sul benessere mentale di chi ha commesso l’atto più orribile.
Non si tratta di negare a nessuno il diritto a un giusto processo o a un supporto psicologico, ma il tempismo e il contesto di queste azioni sono, nel migliore dei casi, insensibili. E’ come se la vita di Sara valesse meno del disagio del suo assassino.
È tempo di chiedersi: dove finisce l’empatia e dove inizia la giustizia? La comunità, e soprattutto chi si batte per i diritti delle donne, dovrebbe essere in prima linea per ricordare che il vero provato è chi ha perso tutto, non chi ha tolto tutto.
Nel parallelo con il caso di Filippo Turetta, che ha assassinato la sua ex fidanzata Giulia Cecchettin, si nota una differenza abissale nel trattamento mediatico e pubblico. Turetta, un uomo bianco italiano, è diventato il “simbolo della violenza di genere”, con una copertura mediatica che ha sottolineato la gravità del suo atto e ha stimolato un dibattito nazionale sulla prevenzione dei femminicidi. La sua vicenda ha portato a deliranti discorsi sulla cosiddetta “cultura patriarcale”, sulla “necessità di educazione contro la violenza”, e alla richiesta di giustizia per Giulia. Tuttavia, quando si tratta di Jashan Deep Badhan, la narrativa cambia: si parla del suo stato emotivo, della sua ‘difficoltà’, quasi come se ci fosse una giustificazione o almeno una comprensione maggiore per i suoi sentimenti post-omicidio. Questo paragone mette in luce un doppio standard inquietante: mentre per Turetta si chiede giustizia e si discute la malattia sociale della misoginia, per Badhan si cerca già di costruire una difesa basata sulla sua sofferenza.
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