Imboscati ucraini protestano a Milano sotto Consolato Usa: perché non si arruolano?
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“Umiliato nostro popolo”: gli ucraini protestano a Milano, ma perché non combattono?
Oggi, 1° marzo 2025, una cinquantina di ucraini si è radunata davanti al Consolato USA a Milano, sventolando bandiere giallo-azzurre e gridando slogan come “I confini dell’Ucraina sono i confini dell’Europa”.
lamentandosi di un presunto affronto al loro presidente, Volodymyr Zelensky, dopo il suo incontro con Donald Trump. “Umiliato nostro popolo”, hanno dichiarato, puntando il dito contro l’America e il suo leader, accusati di non rappresentare i valori di libertà e dignità che loro rivendicano. Ma dietro le parole altisonanti e i cartelli ben scritti, sorge una domanda semplice, quasi brutale: se questi manifestanti sono così convinti della loro causa, perché sono qui a urlare in una piazza milanese invece di arruolarsi e combattere per la “loro” guerra?
Non è una provocazione gratuita. Dopo tre anni di conflitto, l’Ucraina ha perso decine di migliaia di vite, le sue città sono ridotte a cumuli di macerie, e l’esercito arranca contro un nemico che non sembra intenzionato a cedere. Zelensky stesso ha più volte chiamato alle armi ogni uomo abile, mentre i cimiteri si riempiono e i villaggi si svuotano. Eppure, qui a Milano, troviamo ucraini in buona salute, con fiato bastante per cantare inni patriottici e puntare il dito contro Trump, l’Europa, o chiunque capiti a tiro. “Siamo con Zelensky”, dicono. Ma essere “con” qualcuno non significa starsene al sicuro a migliaia di chilometri dal fronte, mentre altri muoiono sotto le bombe russe.
“I confini dell’Ucraina sono i confini dell’Europa”, ripetono come un mantra. Una frase che suona bene, certo, ma che puzza di ipocrisia quando a pronunciarla sono persone che scelgono di marciare in una città italiana invece di difendere con il fucile quei confini che tanto decantano. Se davvero credono che la loro lotta sia una questione di vita o di morte per l’Europa intera, perché non tornano a casa a imbracciare le armi? L’Italia non è certo un campo di battaglia, e Milano non è Kiev. Qui non si spara, non si scava trincee, non si rischia la pelle. Qui si può protestare comodi, magari con un cappuccino in mano, mentre si chiede al resto del mondo di fare ciò che loro non sembrano disposti a fare.
Non fraintendiamoci: la guerra in Ucraina è una tragedia, e il popolo ucraino ha pagato un prezzo altissimo. Ma proprio per questo, vedere questi manifestanti lamentarsi di un’umiliazione diplomatica – vera o presunta – davanti a un consolato straniero, invece di agire in prima persona, lascia un retrogusto amaro. Trump potrà anche aver trattato Zelensky con freddezza, ma non è stato lui a scatenare il conflitto. E se i manifestanti pensano che l’Europa debba “svegliarsi” e combattere al posto loro, forse dovrebbero chiedersi perché loro per primi non sono già sul campo. L’esercito ucraino accoglie volontari, e i consolati ucraini in Italia hanno persino facilitato il rientro di chi voleva arruolarsi nei primi mesi di guerra. Dove erano allora questi paladini della libertà?
La verità è scomoda: protestare è facile, combattere no. Urlare contro l’America o l’Europa è un modo per sentirsi utili senza sporcarsi le mani. Ma la guerra non si vince con i megafoni o le bandiere sventolate in piazza Mercanti. Se questi ucraini vogliono davvero difendere i “confini dell’Europa”, il biglietto per Kyiv costa meno di quanto pensano. Altrimenti, il loro lamento suona solo come un comodo alibi per lasciare ad altri il peso delle loro battaglie. Zelensky può anche essere stato “umiliato”, ma il vero schiaffo al popolo ucraino viene da chi parla tanto e fa poco.
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