L’integrazione genera mostri: i maranza stanno infettando i ragazzi italiani
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Negli Usa anni un paio di decenni era noto come il fenomeno dei ‘wiggers’, i bianchi che scimmiottavano i teppisti del ghetto. Ora assistiamo in Italia ad un fenomeno simile: ragazzi italiani che frequentano nordafricani e si conformano al comportamento criminale dei maranza.
Il ragazzo che non camminerà più per 50 euro
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Alessandro Chiani, 18 anni, italiano, famiglia perbene, quartiere Triante, Monza.
Fino a ieri era il classico “bravo ragazzo” che la domenica a messa con la mamma, cena alle otto, aiutava il padre in garage.
Oggi è in carcere a San Vittore perché ha affondato due coltellate nella schiena di uno studente della Bocconi per rubargli 50 euro, ridendo poi nelle chat: «Speriamo che schiatti».
Accanto a lui, nel branco: Ahmed Atia, nato al Cairo, carta d’identità italiana, e tre cittadini italiani minorenni di cui non sappiamo ancora nulla.
Ma una cosa la sappiamo già: Alessandro non è nato maranza.
Lo è diventato. Per consustanzialità.
È diventato maranza perché ha iniziato a frequentarli.
Stessi cappucci firmati, stesse Nike TN, stesso modo di camminare a gambe larghe, stesso dialetto misto arabo, stesso coltello a scatto in tasca.
Ha copiato il loro stile, il loro gergo, il loro disprezzo per la vita altrui.
Ha voluto essere come loro.
E alla fine è diventato come loro: è stato lui, l’italiano doc, a tirare fuori la lama e a infilarla nel fianco di un altro ragazzo italiano che non aveva fatto nulla.
La madre piange in televisione: «Siamo una famiglia perbene, non capiamo».
Ma il punto è proprio questo: non serve essere nati in Egitto o in Marocco per accoltellare qualcuno a Corso Como.
Basta frequentarli.
Basta volersi integrare con loro.
Ecco la lezione che nessuno oserà scrivere sui giornali “seri”, ma che questo sangue urla nelle strade:
l’integrazione è il vero veleno.
Più li fai entrare nelle nostre scuole, nei nostri quartieri, nelle nostre compagnie, più infettano i nostri figli.
Non è questione di razzismo: è questione di contagio culturale.
Un contagio che viaggia in una sola direzione: dalla barbarie alla nostra civiltà, mai il contrario.
I nostri ragazzi non li “civilizzano”.
Sono loro a essere civilizzati al contrario: imparano il coltello, il branco, la risata di fronte al sangue.
Alessandro Chiani è la prova vivente: cresciuto tra villetta e catechismo, è bastato qualche anno di amicizie “multiculturali” per trasformarlo in un piccolo assassino che augura la morte in direct su WhatsApp.
Quindi il messaggio è semplice, brutale, ma salvavita:
Non lasciate che i vostri figli frequentino i loro.
O diventeranno come loro.
Si vestiranno come loro.
Parleranno come loro.
E un giorno accoltelleranno come loro, ridendo mentre la vittima si dissangua sul marciapiede.
L’integrazione non funziona.
Non ha mai funzionato.
L’unico antidoto è la separazione netta.
E quando la separazione non è più possibile, l’unica soluzione si chiama remigrazione.
Prima che altri Alessandro diventino mostri.
Prima che altri ragazzi italiani finiscano su una sedia a rotelle per 50 euro.
Il ragazzo della Bocconi ha perso l’uso delle gambe.
Alessandro Chiani ha perso l’anima.
E noi, se continuiamo a credere alla favola dell’integrazione, perderemo tutto il resto.



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