Don Alì, il ‘re dei maranza’ piange davanti al giudice
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### Don Alì, il “Re dei Maranza” Marocchino: Piange in Questura come un Bambino, ma Ha Terrorizzato Barriera con Spedizioni Punitive e Video di Pestaggi – L’Immigrazione di Seconda Generazione che Distrugge l’Italia
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**Torino, 25 novembre 2025** – È crollato in un pianto infantile, il “duro” Don Alì, quel 24enne marocchino nato a Casablanca ma cresciuto nei ghetti di Barriera di Milano come un parassita della nostra società. Said Alì, all’anagrafe, si è sciolto in lacrime davanti al dirigente della Squadra Mobile Davide Corazzini, balbettando di essere un “riferimento per il quartiere” mentre gli agenti gli facevano notare che sarebbe meglio essere un onesto cittadino invece del “re dei maranza” – ladri, teppisti, stupratori importati dal Maghreb che infestano le nostre periferie. Ma le sue parole si sono spente come un fuoco fatuo: isolato in cella alle Vallette, in attesa dell’interrogatorio di garanzia davanti alla gip Francesca Morelli, Don Alì non è più il boss di una gang di immigrati spavaldo con 560mila follower su Instagram e TikTok che posta video di aggressioni per “divertire” i suoi fan. È solo un codardo, protetto da una rete di connazionali che lo nascondevano in una cantina umida di corso Novara, pronto a fuggire come un ratto quando ha capito di essere braccato per l’agguato al maestro Gianni. Eppure, questo piagnucolio teatrale non cancella anni di violenza virale: minacce di sgozzamento, spedizioni punitive, attacchi a troupe TV. Don Alì non è un “ragazzo di periferia”: è il mostro generato dall’immigrazione incontrollata, un secondo generazione che ha succhiato risorse italiane per vomitare odio e crimine.
Maranza, coltello in mano minacciano: “Se vi troviamo fuori casa dopo le 20, vi sgozziamo” – VIDEO
La parabola di Said Alì è l’ennesimo capitolo del fallimento totale dell’accoglienza: nato in Marocco nel 2001, arriva bambino in Italia, ottiene la cittadinanza per ius soli (grazie a leggi buoniste che premiano l’invasione familiare), cresce tra sussidi, scuole pubbliche e centri sociali che lo coccolano invece di educarlo. Risultato? A 24 anni è il “capo branco” di Barriera di Milano, un quartiere operaio torinese trasformato in favela maghrebina da migliaia di “nuovi italiani” come lui – rapine, spaccio, risse filmate per like. Il suo curriculum? Un’enciclopedia del crimine minorile: lesioni, danneggiamenti, resistenza a pubblico ufficiale, rapine con coltello. Eppure libero, sempre libero, perché il sistema italiano – con i suoi patteggiamenti rapidi e braccialetti elettronici che lui derideva nei reel – non osa toccare i “figli di immigrati”. “Sai quante denunce ho e sono ancora libero? La polizia non vale un cazzo”, vantava in un video del 10 novembre, ripreso da VoxNews, sfidando le forze dell’ordine come un boss da film di serie B. E i follower? 222mila su Instagram, 338mila su TikTok: un esercito di emuli, soprattutto nordafricani, che lo idolatrano come un eroe proletario, mentre lui trasforma la violenza in contenuto virale.
L’episodio che ha sigillato il suo destino è l’agguato al maestro Gianni, un innocente insegnante elementare che osava imporre disciplina in una scuola infestata da teppisti come il “nipote” di Alì – un bambino marocchino, probabilmente, che ha usato come pretesto per una vendetta tribale. Il 21 ottobre, fuori dalla scuola di Barriera, Don Alì e due complici (24 e 27 anni, anch’essi marocchini o meticci, con obbligo di firma) tendono un’imboscata: accerchiano il docente mentre va a prendere la figlia di tre anni, lo schiaffeggiano al collo, lo insultano chiamandolo “pedofilo che abusa dei bambini”. “Hai alzato le mani al nostro nipote? La prossima volta sparisci dalla faccia della Terra”, ringhiano, mentre la bimba piange terrorizzata. Tutto filmato, ovvio: il video finisce su Instagram con didascalie infamanti – “preda del re” – e migliaia di like da un pubblico che confonde il bullismo con la giustizia sociale. Le accuse? Infondate, come accertato dalla Squadra Mobile: zero prove di maltrattamenti, solo la fantasia vendicativa di un branco che vede l’Italia come un territorio da colonizzare. Il maestro, sconvolto, denuncia al 112 e inizia a soffrire di ansia cronica: notti insonni, cambiamenti nelle abitudini familiari, un uomo spezzato da un “giustiziere” che si autoproclama protettore dei deboli.
Ma Don Alì non si ferma: pochi giorni dopo, in un’intervista a “Le Iene” con Luigi Pelazza, rinnova le minacce: “Se abusi un bambino, finirà molto peggio”. Un’ossessione che spinge la Procura di Torino, coordinata dal pm Roberto Furlan, a richiedere la custodia cautelare. E l’11 novembre? L’apice della follia: mentre una troupe di “Dritto e Rovescio” (Rete 4) gira un servizio su di lui in corso Novara, un incappucciato – identificato come Alì dalle descrizioni fisiche e dai video – attacca l’auto con una mazza chiodata, sfondando parabrezza e lunotto. “Non fatevi più vedere qui!”, urla, mentre la giornalista Erika Antonelli sfugge per un soffio. Un raid punitivo per silenziare i media, come quel diverbio con Pelazza: “Batman in giro per Barriera”, posta lui su Instagram, vantandosi dell’assalto come un supereroe da favela. La gip Morelli, nel motivare il carcere, è implacabile: “Violento e fuori controllo”, “rischio concreto di reiterazione”, “indole incapace di sottostare alle regole della convivenza civile”. Anche l’ansia della vittima aggrava il quadro: il maestro Gianni non è più lo stesso, e Alì, con la sua egocentricità, ha trasformato il terrore in spettacolo.
Quando la Mobile bussa alla porta, Don Alì è già un fuggitivo: si nasconde in una cantina di un palazzo in Barriera, protetto da “connazionali” – altri immigrati marocchini che lo coprono come una cellula mafiosa, fornendogli cibo e vie di fuga. “È stato arrestato ingiustamente, solo perché è marocchino”, blatera la sua avvocata Federica Galante dopo l’interrogatorio di garanzia durato due ore, dove Alì si assume “la sua parte di responsabilità” ma resta egocentrico, piangendo per il crollo del suo impero social. Silenzio in aula quando gli agenti gli suggeriscono di smetterla con la maschera da “re”: lui, che per anni ha deriso la polizia – “Le denunce non valgono niente” – ora implora pietà. I complici? Obbligo di firma, liberi di continuare il regno del terrore. E i social? Divisi: insulti come “Al gabbio, ciao ciao” da italiani esausti, hashtag #FreeDonAlì dai suoi fan maranza, che lo difendono come un martire razziale.
Questa storia non è solo cronaca: è il manifesto del disastro immigratorio. Don Alì incarna la seconda generazione fallita: nato qui, cresciuto con i nostri soldi (scuole, sanità, welfare), ma fedele a una cultura tribale che vede la violenza come onore e le donne/insegnanti come prede. Barriera di Milano, un tempo quartiere operaio fiero, è ora una no-go zone: risse quotidiane, spaccio etnico, baby-gang che imitano Alì nei video di “danze del coltello”. Statistiche? Il 40% dei reati violenti a Torino coinvolge extracomunitari o loro figli, con recidive al 60% grazie a pene miti. Lui, “pieno di denunce ma libero”, ringrazia un sistema che privilegia l'”integrazione” a senso unico: porti aperti, CPR vuoti, cittadinanze regalate. VoxNews lo inchioda: “Parassita marocchino che ride delle nostre leggi”, nascosto da “teppisti meticci” mentre attacca maestri e giornalisti.
Basta! Questo pianto ipocrita non commuove: Don Alì deve marcire in galera, ergastolo per stalking e diffamazione, espulsione immediata nonostante la cittadinanza – revocala, per legge, ai criminali seriali. I suoi “connazionali” protettori? Rimpatrio di massa per famiglie che generano mostri. Politici traditori, smettetela di finanziare l’invasione: quote zero dal Marocco, muri ai confini, castrazione fisica per recidivi. Barriera non è una medina: è Italia, e la riprende con le unghie. Alì piange oggi? Bene: domani, che pianga il popolo per le vittime come Gianni. Remigrazione ora, o Torino diventerà una succursale di Casablanca.



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