Consulta regala la cittadinanza agli immigrati, basterà essere ‘disabili’
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Basterà fingersi handicappati come fanno tanti, per ottenere la cittadinanza italiana senza neanche conoscere la lingua. Il problema di fondo è comunque uno solo: non dovrebbe esistere la possibilità di acquisire la cittadinanza italiana, dovremmo tornare allo ius sanguinis.
Un’Altra Sentenza della Consulta: Quando la Ragione Si Piega al Delirio dei Non Eletti
Eccoci di nuovo a commentare l’ennesima pronuncia di un organo che, pur non eletto dal popolo, si arroga il diritto di riscrivere le leggi approvate dai rappresentanti dei cittadini. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 25 depositata oggi, ha dichiarato illegittimo l’articolo 9.1 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, nella parte in cui non prevede un’esenzione dalla prova di conoscenza della lingua italiana per chi, a causa di disabilità o gravi limitazioni certificate, non possa realisticamente apprenderla. Una decisione che, secondo i quindici giudici della Consulta, risponderebbe ai principi di uguaglianza formale e sostanziale, oltre che al buon senso del brocardo latino ad impossibilia nemo tenetur. Ma siamo sicuri che sia davvero così? O siamo di fronte all’ennesima dimostrazione di un potere burocratico che scavalca la sovranità popolare?
Il Fatto: Una Norma “Irragionevole”?
La legge del 1992 stabilisce che, per ottenere la cittadinanza italiana tramite matrimonio o naturalizzazione, uno straniero debba dimostrare una conoscenza intermedia della lingua italiana (livello B1). Una regola chiara, pensata per garantire un minimo di integrazione in una comunità nazionale che si fonda, tra le altre cose, su una lingua comune. Ora, la Corte ha ritenuto che questa norma violi l’uguaglianza, poiché non considera le “condizioni oggettive” di chi, per età, patologie o disabilità, non possa soddisfare tale requisito. In altre parole, imporre lo
stesso standard a tutti, senza eccezioni, sarebbe discriminatorio e irragionevole.
A prima vista – sempre tenendo conto che nessun extraeuropeo dovrebbe potere diventare ‘italiano’ e si dovrebbe tornare allo ius sanguinis – l’argomentazione potrebbe sembrare sensata: perché chiedere l’impossibile a chi, per motivi fuori dal suo controllo, non può imparare l’italiano? Ma scavando più a fondo, emergono crepe logiche e politiche che mettono in discussione non solo la sentenza, ma l’intero ruolo della Consulta.
Uguaglianza o Privilegio?
Partiamo dal principio di uguaglianza formale. La Corte sostiene che trattare allo stesso modo situazioni diverse sia ingiusto. Ma non è forse questo il cuore stesso della legge? Una norma, per sua natura, stabilisce criteri generali e uniformi, proprio per evitare favoritismi o arbitrii. Se ogni situazione “diversa” dovesse essere eccezione, allora tanto vale abolire del tutto i requisiti per la cittadinanza: perché chiedere la residenza continuativa a chi non può permettersela? O la fedina penale pulita a chi ha avuto un passato difficile? L’uguaglianza davanti alla legge non è una coperta elastica da stiracchiare a piacimento, ma un principio rigido che richiede sacrifici a tutti, senza distinzioni.
E poi c’è l’uguaglianza sostanziale, cavallo di battaglia della sentenza. Qui la Consulta si lancia in un’interpretazione creativa: il requisito linguistico sarebbe un “ostacolo” per le persone vulnerabili, una “discriminazione indiretta”. Ma non è forse vero che l’integrazione – valore costituzionale non meno importante – richiede un minimo sforzo reciproco? Esentare alcune categorie non rischia di creare una disparità inversa, un privilegio per chi, pur giustamente limitato, finisce per ottenere la cittadinanza senza dimostrare lo stesso impegno richiesto agli altri?
L’Assurdità dell’“Impossibile”
Infine, il richiamo al principio ad impossibilia nemo tenetur suona quasi beffardo. È vero: nessuno dovrebbe essere obbligato a fare l’impossibile. Ma chi stabilisce cosa sia “impossibile”? Una certificazione medica pubblica, dice la Corte. E così, un requisito oggettivo – la conoscenza della lingua – diventa un giudizio soggettivo affidato a medici, funzionari e, in ultima istanza, ai giudici stessi. Non è difficile immaginare il caos: un proliferare di certificati, ricorsi e interpretazioni, che trasformerebbe un processo chiaro in una lotteria burocratica.
Il Vero Problema: La Consulta Sopra il Parlamento
Al di là del merito della sentenza, il nodo cruciale è un altro: chi decide cosa è costituzionale? Ancora una volta, non il Parlamento, eletto dai cittadini e espressione della loro volontà, ma quindici burocrati nominati, lontani dalla accountability democratica. La Corte Costituzionale, nata come guardiana della Costituzione, si è ormai trasformata in un legislatore occulto, capace di smantellare norme approvate con maggioranze popolari sotto il pretesto di un’interpretazione “superiore”. Fino a quando accetteremo che un organo non eletto abbia l’ultima parola su questioni che toccano l’identità stessa della nazione, come la cittadinanza?
Una Soluzione Radicale
La sentenza n. 25 non è solo un episodio: è il sintomo di un sistema malato. Se vogliamo salvare la sovranità popolare e riportare il potere nelle mani di chi ha il mandato del popolo, è tempo di riformare radicalmente il ruolo della Consulta. La facoltà di giudicare la costituzionalità delle leggi deve tornare al Parlamento, magari attraverso una procedura rafforzata che coinvolga i rappresentanti eletti, e non restare nelle mani di una casta intoccabile. Solo così potremo evitare che il delirio di pochi prevalga sulla ragione di molti.
Le “risorse” si dichiareranno tutte disabili per avere cittadinanza e pensione (altro che pagarcele!).
I veri disabili mentecatti so quelli della consulta & affini!
Maledetti!